domenica 7 aprile 2019

Paura della paura stessa.

Avevo un po’ di paura, effettivamente, ad addentrarmi in un racconto sequenziale su un dominatore di paura e i suoi agenti, che mettono a ferro e fuoco il pianeta in cui i nostri eroi saranno costretti a superare i loro limiti e timori per sconfiggerlo e… Fermi tutti! Cosa?! Cosa dite?! Lanterna Verde?! Geoff Jhons?! 


No, no, non è di questo che sto parlando, ma di una novella Marvel ben più tarda ed in tutti i sensi. Sto ancora cercando di capire da dove venga la fama di Matt Fraction dopo un simpatico Punitore anti-suprematisti, ma imparentato con l’Ispettore Gadget e soprattutto, questo Fear It Self.


Come Stan Lee negli anni ‘60, si contrattacca alla Distinta Concorrenza in ritardo e goffamente, inginocchiandoci agli dèi norreni, pregando la loro mitologia per un miracolo editoriale e si va giù di nazisti, ecatombi e martelli a grandinate. D'altra parte nell’Universo 616 non esistono anelli da conferire a degni portatori, bisogna accontentarci di grandi schiaccianoci. Non ci sono corpi di polizia intergalattica (no, aspettate, esistono, sono i Green Lant… oops Nova Corps), ci rimangono solo gli amici della casa di Thor.


Non male certo, ma un po’ sterile per essere la parte migliore. E sì, perché quest’avventura fiorisce in un Heroic Age del tempo di uno sputo dotata di occhio critico e sociale all’altezza dei migliori autori della famosa British invasion, eclissata ben presto dalla tipica superficialità e Tamarreide del popolare UMC. Peggio che nelle sale cinematografiche le profondità appassiscono in favore di facilonerie, immagini ad effetto usa e getta, battaglie e versioni tronizzate (piuttosto sfiziose e chissà che non abbiano ispirato Scott Snyder per il finale di Metal) o immartellate dei vari protagonisti. Facevo bene ad aver paura, paura della paura stessa, paura che un crossover così possa davvero aver visto la luce.


Il potere del Cincirinella... o una cosa così.

Il grande potere del Chninkel

di Van Hamme e Rosinski 



L'impacciato storytelling di benvenuto non è dei migliori per accoglierci in un fantasy classico, influenzato dal segno di Hyeronimous Bosch, che parla di guerre e profezie, non presentando nulla di nuovo, ora come nell’86 (anno d'esordio).


 A dispetto delle affascinanti parole, narra fluidamente e senza fretta una “compagnia dell’anello low cost”, vertiginosamente stereotipata: il protagonista è un Hobbit ingenuo, assennato, il tipico eroe inconsciamente dal cuore puro; la protagonista femminile forte, sì, ma anche sexy, sexy e ancora sexy e un simpaticissimo scimmione troppo presto epurato dall’economia della storia.
              

Una base gradevole per un racconto di genere, avvelenato dal plagio/citazione di 2001 Odissea nello spazio, inutile al fine di una conclusione triste e ruffiana, corroso da un risvolto populista e sessista di una stagione di bande-dessinée che spero ormai sia sorpassata, sintomo di una repressione culturale seconda solo ai nipponici. O agli irlandesi: anche gli irlandesi non secondi a
nessuno per frustrazione. 

Ma non pensiate sia io il moralista: ho un attività sessuale piuttosto intensa e sana e, se avessi voluto vedere scene d'imbarazzante approccio erotico, avrei comprato qualche porno o aspettato i programmi serali di Cielo. La storia appare bacata dall’assenza di un obiettivo specifico per cui quell’intrigante pizzico di Dune nell’estetica degli antagonisti non è neanche lontanamente sufficiente. In qualche sito che si proclama esperto e di settore sembra apparire tra i cinque miglio i fumetti  … beh: scusate se mi viene da ridere.