lunedì 22 settembre 2014

Animal Zagor

Finalmente ho letto la conclusione dell'avventura zagoriana Il signore dell'Isola e posso affermare che la coppia Colombo-Giusfredi è riuscita a chiudere una bella storia con un seguito di cui nessun appassionato di Zagor avrà di che lamentarsi.
In questa seconda parte è illustrata, con semplicità ed efficacia, una piaga, ahimé, fin troppo attuale e la storia si presenta agli occhi di noi lettori con un' inquietante puntualità.
Il classico potente, prepotente del luogo manipola il popolo scagliando il loro odio verso un nemico totalmente indifeso che, in questo caso, coincide con una specie animale sull'orlo dell'estinzione. Questo broglio mediatico mette, così, in luce la debolezza di quegli uomini mal educati, abbrutiti da una vita di stenti ed ignoranza, che, non solo non riesce ad opporsi all'apparente verità di un astuto ingannatore, ma che forse, in fin dei conti, non vuole neanche farlo.
Parlando alla pancia della massa, il reale avversario del protettore di Darkwood, fa leva sull'insicurezza di chi non sa, non accetta di non sapere e non vuole sapere. Facile è per lui aizzare questi piccoli uomini contro un sedicente male incarnato (in questo caso una famiglia di volpi giganti) perché in fondo è questo che vogliono. Hanno un problema e desiderano una soluzione immediata, anche quando questa non è possibile. Non amano spiegazioni complicate, benché vere ( la realtà dei fatti è sempre più complessa di quel che ci può apparire), vogliono un colpevole, un obbiettivo da colpire per estirpare la loro erba cattiva, un capro espiatorio per l'ora e l'adesso ed è facile offuscare la ragione se non la si vuol vedere.
La stessa ragione che è mancata a chi, qualche tempo fa ha avviato un inutile girandola di allarmismo contro una madre impaurita per i propri figli, spaventata da chi non doveva essere davanti a lei in quel luogo a quell'ora, un' orsa che mai si sarebbe sognata di attaccare un centro abitato, disorientata da un inesperto, incauto ed incosciente (per non dire stupido) cercatore di funghi avventuratosi dove non avrebbe dovuto. Di lì a poco, sia una parte di stampa, che figure politiche e di associazioni varie, hanno permesso il formarsi di un' opinione pubblica, che ha visto nell'animale un pericolo mortale per i centri abitati della zona, un' idea assurda, perché non tiene conto dei motivi per cui quell'uomo è stato assalito, del come e del quando, ma sopratutto di nessuna nozione scientifica che riguardi l'orso in quanto animale. Se l'avesse fatto si sarebbe resa conto che l'unico pericolo era rappresentato dall'incoscienza che l'uomo ha dimostrato, che una madre, di qualsiasi genere, si spaventa facilmente per i suoi cuccioli e che nessun essere vivente può essere mai cattivo di nascita. L'opinione pubblica però non ha coscienza o cervello, ma solo voce, ed è una voce che urla unicamente per istinto, che prende forma dalla parola del più forte in barba ad ogni ragione possibile.
"Il sonno della ragione genera mostri" diceva qualcuno, ed il mostro, l'orrore vivente, non è rappresentato né da volpi giganti, né da orse terrorizzate, ma da animali eretti che uccidono altri animali senza nessuna vera motivazione, per sfogare le loro frustrazioni e violenze, per il loro infantilismo congenito. E se nella storia bonelliana le volpi hanno un salvatore di nome Zagor, nella realtà un' orsa muore per l'incivile distrazione di uomini troppo arroganti.

http://www.repubblica.it/cronaca/2014/08/15/news/trentino_cercatore_di_funghi_aggredito_da_orsa_con_cuccioli-93830997/


Vegan Zagor ?

Forse non tutti voi sanno della mia passione per uno dei fumetti popolari più longevi del nostro paese, quel tarzanide in casacca rossa che risponde al nome di Zagor, creato dal Sergio figlio del Bonelli, avventuroso romanziere, papà di Tex con cui diede il via a un effetto domino di creatività all'interno della letteratura disegnata a tutt'oggi inarrestato. Se fu Topolino, col suo fumetto Disney, l'esperta casalinga ad introdurmi in un nuovo e mirabolante aspetto dell'esistenza, sicuramente fu Zagor il primo amore, la prima tormentata storia, la mia emancipazione fumettistica che mi permise di levare l'ancora ed allargare i miei orizzonti, avvicinandomi alle coste della maturità a "nuvolette". Dal cosiddetto "Spirito con la scure" in poi è stata tutta discesa (o tutta salita, a seconda dei punti di vista)  verso culture sempre diverse e molto distanti tra loro: americani, striscie, supereroi, sudamericani, franco-belga, manga, manhwa, graphic-novel e chi più ne ha, più ne metta. Quindi il mio affetto per il personaggio trascende il semplice "mi piace"  e sarà per questo, sarà per la narrativa fantastica tutt'ora piuttosto fresca ed apprezzabile, o sarà per le firme degli autori, che aspettavo con grande curiosità di leggere l'albo di questo agosto, marchiato da una colonna della serie come Maurizio Colombo e da Giorgio Giusfredi, un giovane debuttante in casa Bonelli, ma che ha già potuto lasciare il proprio segno in qualche almanacco.
Così mi trovo a leggere un'avventura zagoriana con tutti i crismi, avvincente dalla prima all'ultima vignetta ed adornata con una sequela di personaggi uno più particolare dell'altro, grazie ai quali i siparietti comici di Cico si sprecano, alleggerendo come da tradizione le varie vicende. Ed allora m'inchino alla coppia di autori, ma sopratutto, vista l'età (non poi così distante dalla mia) e l'inesperienza, al giovane Giorgio, perché fino a qui non se ne può che dire bene.
Eppure, più andavo avanti nella scoperta di questa nuova ed emozionante ventura dei nostri Don Chisciotte e Sancho Panza (riferimento non casuale, visto che nella storia gli autori si divertono ad accostarci i nostri eroi senza andar affatto fuori luogo), più avevo come l'impressione che s'imbattessero in dinamiche un po' più moderne rispetto al solito, un po' più, come dire, legate al nostro viver quotidiano.
Niente di male, in questo, anzi, ma nessuno mi toglie dalla testa che la strega hippie figlia dei fiori, vegetariana e tra un po', probabilmente, anche vegana, e il tema dell'animalismo e dell'ecologismo che si celano abilmente dietro l'angolo, siano frutto dell'enfant prodige Bonelli, o (chissà?) così non è e il buon Colombo ci ha messo del suo. Ad ogni modo la cosa mi ha molto divertito e mi sono istantaneamente interrogato su come il personaggio di Zagor da sempre campione d'umanesimo, possa interagire con un personaggio così spiccatamente ambientalista. Ho sempre interpretato la figura dello Spirito con la Scure come un rappresentante di valori universali, che mettono la vita e la fratellanza umane come priorità assolute, anche davanti al resto dell'universo, animale, vegetale, ecc, senza però mancargli di rispetto. Trova, quindi, un equilibrio tra le sue scelte, nel difficile rapporto tra la necessaria sopravvivenza dell'uomo e il pianeta di cui è figlio e ospite. Davanti a questa "paladina di Madre Natura", che durante i suoi deliri (dovuti al dolore per una ferita grave) accusa di omicidio i poveri trappers (figure tipicamente non ostili a Zagor) alla vista delle pelli che trasportano, vive in una capanna con due volpi giganti come animali domestici ed è convinta di essere una strega capace di comunicare con le divinità lunari, come reagirà il nostro protagonista? La figura Zagor ne uscirà come al solito immacolata, o, per contrasto, apparirà nettamente dalla parte della ragione o del torto? Nel suo comportamento apparirà un residuo di antropocentrismo ormai superato o riuscirà a capire la filosofia "naturalistica" della donna?
Non so di certo dove abbiano desiderato andare a parare gli autori (lo scopriremo solo tra un paio di mesi o meno), ma mi sono augurato che non vi sia il voler di svecchiare la figura dell'avventuriero facendolo apparire piuttosto tollerante dinanzi ad una mentalità che, sebbene sia attualmente ben accettata anche se non sempre compresa sino in fondo, è in pratica socialmente dannosa poiché basa il suo pensiero su fondamenti scientificamente smentiti e di conseguenza alimentano una discreta disinformazione popolare, di per se', molto poco auspicabile per fin troppi motivi. Mi rendo di poter apparire un poco oscuro e criptico e vengo subito in soccorso ai più disorientati specificando che la filosofia a cui mi riferisco, più quella ecologista è l'ambientalismo radicale unito al vegetarianesimo. So che molto appassionati del vendicatore di Darkwood potrebbero criticarmi affermando che la tolleranza alle più disparate culture è una caratteristica dominante, che mai viene meno, del personaggio di Zagor, ma è vero anche che non ha mai tollerato fili di pensiero che, per quanto diversi, infrangessero quei principi che oggi chiamiamo naturali, fondamentali ed universali dell'uomo.
Purtroppo, nel contesto zagoriano, è molto difficile che i vari personaggi possano realmente rendersi conto dei motivi per cui questi modi di pensare siano nocivi, al massimo appariranno come innocue stranezze. E questo accade perché oggi abbiamo mezzi per comprendere le debolezze e gli errori di atteggiamenti che in altre epoche non esistevano. Anzi, potremmo dire che un vegetariano al tempo fantastico di Zagor sia addirittura una cosa pregevole, un individuo sicuramente "avanti" rispetto ai suoi simili e, quindi, assai utile, almeno in un primo momento, per l'evoluzione culturale di un popolo. Il problema sta proprio qui. Se le avventure di Zagor fossero un reperto storico, benché inventato, sarebbero appunto contestualizzate in un momento in cui potremmo considerare tali pensieri in modo molto positivo rispetto al loro tempo, ma non essendo così, leggendo storie pensate e realizzate, più che oggi, per l'oggi, si può affermare che mostrare uno Zagor troppo docile nei confronti di un animalismo radicale possa far passare con troppa leggerezza il concetto che questo tipo di dottrine siano unicamente positive. Attualmente, niente di tutto questo ancora è accaduto, ma trovo che sia sempre un bene riflettere su qualsivoglia spunto che l'arte e la cultura, volontariamente o no ci offrono. Certo, bisogna evitare di scadere in inutili processi all'intenzione ed allarmismi vari, ma a casa mia si dice: "Meglio aver paura che buscarne".
So che molte persone non hanno ben chiaro perché definisca in modo così negativo l'essere vegetariano e varie culture della stessa matrice ambientalista, cercherò brevemente i spiegarmi in poche righe, tanto basta per non trasformare il tema di quest'articolo in tutt'altro.
In maniera molto diretta la scienza, cosa che si può verificare facilmente grazie ad una passeggiata in biblioteca, ci assicura che le cosiddette diete vegetariane non sono idonee per il nostro organismo, specie nei primi anni di vita, ma grossomodo per tutta la nostra esistenza, esattamente come una dieta eccessivamente piena di carne, essa non è la soluzione per il benessere umano. L'unica possibilità è seguire la nostra natura di onnivori ed avere il più possibile un equilibrio nel proprio nutrimento. Poi c'è sempre l'idea che le coltivazioni di verdure non danneggino l'ambiente come gli allevamenti intensivi di bestiame, idea completamente errata, in quanto il risultato delle immense piantagioni, intensive o meno, di vegetali sparse nel mondo hanno lo stesso effetto. In più l'essere vegetariano è una scelta  che ho sempre visto piuttosto comoda, una mania per chi si può permettere di scegliere cosa mangiare a differenza di chi non ha "uno per far due" e di scelte ne ha ben poche. Certi animalisti e vegetariani, poi, tendono ad additare con pesanti parole e con troppa facilità chi non abbraccia il loro pensiero e credo che questo sia forse l'elemento più negativo, ma che, a sua volta, è strettamente collegato con la reale debolezza della loro dottrina, che vuole la difesa estrema della vita animale e vegetale anche, se non in termini pratici, contro quella umana.
Molto spesso si sente parlare di quanto sia in pericolo l'ecosistema del nostro pianeta, ma non ci viene mai in mente di domandarci del perché sia così importante fare qualcosa al riguardo, perché bisogna salvarlo. In realtà non credo che per la vita della Terra l'uomo rappresenti un reale pericolo; essa è un corpo celeste da un'esistenza ultra millenaria e questa che stiamo vivendo è solo una delle sue tante stagioni di vita, ma sicuramente la progressiva distruzione dell'ambiente così come lo abbiamo sempre conosciuto avrà fortissime ripercussioni negative sulla specie umana, se non proprio condurla all'estinzione. Possiamo quindi dire che voler bene all'ambiente è innanzitutto una prova d'intelligenza, di saggezza e lungimiranza, un atto d'amore verso noi stessi. La Terra potrà sopravvivere anche senza di noi, ma noi non possiamo certamente sopravvivere senza la Terra. Perciò, personalmente, auspico sempre un equilibrio tra l'esigenze sempre più complesse dell'umanità e quelle del resto del creato e, percorrendo questa via di pensiero, ho la convinzione che la cultura scientifica possa sempre aiutarci, anche quando gli stessi problemi sono apparentemente originati da essa stessa. La scienza si esplicita con loo studio e la scoperta del mondo che ci circonda, attraverso quel pensiero che fa dei dubbi, delle domande e della mancanza di certezze la sua arma più potente. Per quanto un'idea possa essere affascinante dovrebbe sempre fare i conti con la pratica delle cose, sondare i propri limiti e verificare i proprio dogmi.
Certo che i miei lievi dubbi su un "errato svecchiamento" del nostro caro amico Zagor siano del tutto infondati, invito tutti a recuperare l'albo Zenith n°640 "Il signore dell'isola" e mi congedo con una delle più sintetiche citazioni da una dei peggiori film tratti da un fumetto di sempre.

https://www.youtube.com/watch?v=lf0vm9wBUf8




martedì 9 settembre 2014

Book Read Magazine intervista Manfredi

Oggi ho avuto il gran piacere di leggere una splendida intervista allo sceneggiatore,scrittore. cantautore Gianfranco Manfredi su Book Read Magazine, un sito di cui è facile intuire gli argomenti ("book" e "read", in inglese significano, rispettivamente "libro" e "leggere"), riguardante il metodo di lavoro e di scrittura  per una serie a fumetti Bonelli. Articolo che consiglio caldamente a tutti per i suoi contenuti, ottimi per comprendere al meglio quale sia il rapporto professionale tra la casa editrice, lo sceneggiatore e il disegnatore che si celano dietro ad ogni albo di Tex e compagnia. Tra le tante interessanti rivelazioni di cui Manfredi ci mette a conoscenza, ce ne sono un paio che, pur non trovando il mio disaccordo, mi hanno dato modo di formulare ulteriori riflessioni e personali parziali correzioni, che credo possano interessare tutti gli appassionati del fumetto come mezzo comunicativo e che vale la pena di approfondire.


Al punto due, quando parla della gabbia bonelliana, il papà di Magico Vento mi trova perfettamente d'accordo: dovrebbe essere sicuramente rivalutata, specie dai più giovani!
E' vero però, che, se l'immediatezza e la chiarezza della Gabbia sono fuori da ogni discussione, altre gabbie o non-gabbie alternative e più tipiche di altre culture hanno anche loro un margine di necessità e motivazioni saldamente fondate a terra per esistere. Tralasciando il sicuro sensazionalismo che un impatto grafico diverso abbia verso i lettori, attirandoli grazie ad una certa superficialità invece che con della sonora sostanza, molte soluzioni di natura americana, nipponica o anche solamente francese possono aiutare un autore ad esprimere molto bene, se non meglio, alcune emozioni o specifiche atmosfere. Questo si capisce al punto tre, dove  viene approfondita la questione, parlando della sequenzialità del fumetto, Manfredi porta ad esempio, come un modello che a lui non piace, la "decompressione", cioè narrare una scena frammentandola nelle tante piccole azioni o dettagli che compongono la totalità dell'azione stessa, cosa utilissima per dare un certo respiro (riflessivo, d'autore, suspence, etc..), rallentando il ritmo di una, o più parti della storia. Quel che l'autore milanese afferma in quelle righe non è affatto campato in aria, ma non si possono trascurare le possibilità comunicative proprie di un modo di far fumetti diverso da quello Bonelli. Vero, anche, che, sebbene in modo diverso e limitato, gli stessi obbiettivi si potrebbero raggiungere grazie alla capacità compositiva del disegnatore, arte nella quale, ahimè, non tutti i fumettisti riescono ad eccellere.
Altro esempio lo ritroviamo quando si parla dei balloon nel punto quattro. Come giustamente fa notare Manfredi, non è preferibile riempire le vignette di dialoghi pesanti togliendo troppo spazio all'immagine, vanificando così il lavoro dell'illustratore, ma nonostante concordi con l'efficacia popolare di una maniera sui dialoghi ripresa dal cinema e dalla televisione, reputo che si possa giocare senza troppi problemi con la pesantezza di un dialogo di botta e risposta che giunge fino ai piedi dei personaggi partendo dalla testa, magari se è in una splash page ( disegno a pagina intera non riquadrato da vignetta) dove i protagonisti sono presi da un acceso confronto verbale potente e veloce.
Aldilà delle molte possibilità che altre impostazioni di fumetto possono avere, è certo che un albo Bonelli sarà molto più lineare e scorrevole, proprio per la staticità della sua gabbia che impedisce al lettore di perdersi tra forme e formine di pagina, in pagina sempre diverse e che corrono il rischio, laddove non vi sia un gran talento, di creare confusione, d'ostacolare la decodifica del fumetto, anziché agevolarla. Alcuni potranno avvertire nella gabbia bonelliana monotonia, una noia che non avvertiranno con altri tipi di gabbie che fanno della dinamicità estrema il loro cavallo di battaglia (e non a caso più apprezzate dalla maggioranza dei giovani), ma che pretendono che il pubblico abbia già acquisito una grande familiarità col media del fumetto, cosa che purtroppo o per fortuna, non è così per tutti. Altri, invece, vedranno nel formato di Tex una guida sicura per seguire senza intoppi il corso della storia; esattamente come il telone di un cinema, che non cambia ad ogni inquadratura, ma rimane lo stesso gigante rettangolo, le tavole Bonelli hanno sempre più o meno la stessa disposizione di vignette facilitando la concentrazione di qualcosa di più importante, il suo disegnato interno. Quindi, possiamo dire che per certi aspetti la gabbia bonelliana è uno standard popolare quasi perfetto, perché permette a tutti, dico a  tutti, sia all'esperto di graphic novel, sia  all'occasionale lettore che acquista Tex nell'attesa di un treno alla stazione, di accedere al medesimo contenuto.
Sono punti di vista e scelte ben precise. Se è vero che le vignette sono solo le cornici dei disegni del fumetto, è anche vero che il fumetto non è solo un bel disegno o una bella storia (anche se nell'analizzarlo possiamo benissimo scindere le varie parti e renderci conto quale è meglio costruita nel caso non vi sia stato un grande equilibrio di lavoro), ma il fumetto è l'insieme di tutti questi elementi e ovviamente della forma delle vignette e dei balloon stessi. Personalmente preferisco un equilibrio tra una visione molto popolare che permetta un accesso relativamente facile ed immediato ed altre di natura sperimentale. Un buon esempio è la serie di Nathan Never sempre della Sergio Bonelli Editore, dove l'irruenza dell'allora giovane sangue fresco del comparto grafico fu bruscamente (e personalmente aggiungo, giustamente) contrastato del tradizionalismo del buon vecchio (e ora pure compianto, purtroppo) editore. Il risultato del clima dell'epoca lo possiamo osservare ancora oggi: una serie fresca e moderna, che non ha niente da invidiare ad altri colleghi internazionali per quanto riguarda dinamicità e creatività grafica, senza però tradire lo spirito popolare che permette, tra le altre cose, una remunerazione economica discreta. Stupire il pubblico è utile, ma stupirlo a forza, senza un criterio e tanto per gusto personale, non porta molto, se non un allontanamento dal proprio operato.

La frase che Manfredi usa per difendere quel che è a suo dire, una soluzione migliore di altre, è straordinaria.
Pone i riflettori su una caratteristica quasi subliminale di questo metodo d'impaginazione, un punto di vista diverso ed acuto:

"Alcuni autori ritengono questa impostazione un po’ troppo rigida , io la trovo molto funzionale e comoda, perché ha il pregio di far sparire la gabbia: una gabbia cui si è abituati, non è più una gabbia, mentre una gabbia in cui il lettore è costretto ad orientarsi, risulta indubbiamente più greve."

lunedì 1 settembre 2014

Juan Solo

Juan Solo. Il famoso Juan Solo. Il grande Juan Solo. Il geniale Juan Solo. Ho sempre letto pareri positivi su Juan Solo, anzi, entusiasti a dir poco.
Non potevo, quindi, perdermi l'ennesima edizione italiana di un fumetto riconosciuto dai più come un vero e proprio capolavoro. Sceneggiato da un autore la cui popolarità è seconda solo ai divi del cinema o dello sport (non è un caso che non si sia mai solo occupato di fumetto e il suo nome lo si può trovare facilmente su altri media narrativi), Alejandro Jodorowski, e illustrato abilmente da George Bless, gran maestro francese di matite ed inchiostri, viene presentato come "uno dei vertici narrativi raggiunti dal grande Jodorowski," e "un'avventura meravigliosa che non può mancare nelle collezioni di tutti gli appassionati! Un personaggio memorabile, per un'avventura già entrata nella storia dei comics!" 
Innanzi a queste parole mi sono avvicinato all'opera nel modo più aperto possibile, cercando di giudicare considerando ogni contesto, sia quello descritto nella storia che l'epoca in cui il fumetto vide la luce per la prima volta, un età non esattamente recente, con grandi aspettative ed emozioni per quello che avrebbe dovuto diventare un nuovo caposaldo nella mia formazione a nuvolette.
Eppure... eppure mi sono ritrovato in mano un prodotto impeccabile solo all'apparenza, ma che lascia alquanto a desiderare a confronto della gigantesca fama che lo precede. Juan Solo narra la vita di un orfano dei bassifondi sudamericani, abbandonato alla nascita a causa di una coda scimmiesca e la sua arrampicata sociale per mezzo solo ed unicamente di atti violenti e criminosi, manifesto di un'esistenza segnata e condotta all'insegna della corruzione umana, senza il minimo accenno di pentimento fino alla morte. A partire da questa premessa le possibilità per una grande opera su temi come, ad esempio, l'emarginazione e la diversità ci sarebbero tutte, ma la frenetica dinamica a "palla di neve" della storia non permette alcun approfondimento, lasciando spazio solo ad una serie di cause ed effetto a tinte sempre più forti, come a voler giocare sicuro grazie al sensazionalismo del fattaccio di turno. Sicuramente non avrò capito qualcosa, ma un escamotage del genere non me lo sarei aspettato da un qualcosa che vuole essere un po' più alto rispetto al semplice albo di supereroi americano. L'originalità, è bene dirlo, si fa largamente spazio solo nella costruzione dei personaggi (ma nemmeno tutti), quasi sempre contraddistinti da particolarità o malformazioni fisiche, in un modo che rasenta il geniale, ma purtroppo non procede oltre. In più, leggendo altre storie di Jodorowski si ha come l'impressione che l'inserimento di questi veri e propri freak come personaggi sia una forte ripetizione di idea che funziona, più che un marchio di fabbrica o una caratteristica della sua poetica. L'intreccio della vicenda è piuttosto banale e scontato e i diversi personaggi, anche se scritti al meglio, non sono affatto sufficienti per sostenerla. Il tutto si salva, almeno, per l'ottimo ritmo di lettura, scorrevole e mai pesante, i dialoghi, i grandi disegni ed è chiaro che gli autori sanno e molto probabilmente, per questo, proprio questo, l'amaro in bocca che ti lascia è ancora più amaro. Di fatto assistiamo ad un'esposizione fredda di una serie di sfortunati eventi già tristemente noti grazie alle pagine di cronaca dei giornali di tutto il mondo senza un'indagine, un parere, un messaggio se non l'inevitabile consapevolezza della realtà, ma per ottenere questo non è affatto necessario leggere Juan Solo. 
Ripeto, sicuramente sono io che non ho capito qualcosa, ma credo sinceramente che sia il fumetto più sopravvalutato di tutti i tempi. Probabilmente, alla sua prima uscita, avrà fatto successo e il suo contenuto avrà scosso qualche animo, glielo concedo, ma se vogliamo usare il termine capolavoro dobbiamo prima assicurarci che ce ne siano gli estremi perché capolavoro è una parola abbastanza grossa. 
La lettura di questa rinomata opera mi ha dato ben poche emozioni a parte la noia ed un enorme vuoto, ben agghindato, certo, da quegli stereotipi e retoriche tipiche di certi salotti intellettuali  a cui, i due autori, hanno propinato con grande maestria un bel banchetto con molto fumo e pochissimo arrosto.